Alle radici del cibo 4: il Mais (parte seconda)

Alle radici del cibo 4: il Mais (parte seconda)

Come accennato nel post precedente, il mais è una pianta talmente importante per i suoi aspetti alimentari, sociali ed economici che abbiamo deciso di dedicarle due post. In questa seconda parte esploreremo alcune curiosità culturali e approfondiremo alcuni aspetti economici e ambientali di questa pianta meravigliosa, usandola come esempio per esplorare la relazione fra il sistema agro-industriale alimentare e il cambiamento climatico.

Può sorprendere ma uno dei piatti più mangiati in Africa assomiglia moltissimo alla “nostra” (soprattutto in nord Italia) polenta. In base al paese e alla lingua ovviamente prende nomi diversi: ugali in Tanzania, posho in Uganda, fufu in Sierra Leone e molti altri. Non sempre la “polenta” in Africa si fa anche con altri cereali come il miglio o il sorgo, oppure con tuberi essiccati e sbriciolati come la manioca, ma il cereale più popolare è sicuramente il mais. Notevole somiglianza con il ruolo che riveste il mais fra le Dolomiti, dove la polenta fa da padrona a tavola, cucinata in vari modi e con vari accompagnamenti. Forse l’accompagnamento più creativo è il “tocà da bòia”, palline di pastim cotto a lungo in una salsina a base di farina di mais. Un piatto gustoso da provare assolutamente nel caso in cui vi capiti di visitare l’Agordino.

Bisogna anche dire però che solo una minima parte del mais prodotto ogni anno a livello globale viene destinato al consumo diretto. La maggior parte viene infatti utilizzato per nutrire animali da allevamento, per la produzione di etanolo combustibile oppure processato per produrre sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio, dolcificanti, amido e per la produzione di bevande alcoliche. Negli Stati Uniti, per esempio, leader globale nella produzione di mais, quasi il 40% del mais coltivato viene usato per nutrire animali da allevamento destinati alla produzione di carne, latte e uova, il 30% per l’etanolo combustibile. Meno del 10% viene destinato ad usi alimentari di cui uno striminzito 1,5% come cereale per alimentazione umana e il rimanente 8.5% per produrre dolcificanti, amido, sciroppi e alcolici[1].

Il problema di questo sistema agro-industriale sta nell’impiego di numerose risorse (terra, acqua, semi etc..) per alimentare animali di cui poi ci nutriamo, utilizzando così in modo inefficiente le limitate risorse naturale che il nostro pianeta ci offre. Gli allevamenti intensivi emettono molti gas serra (anidride carbonica, protossido di azoto, metano ed esafluoruro di zolfo) che contribuiscono ad accelerare ulteriormente l’emergenza climatica già drammaticamente in atto.

Parte dell’impatto ambientale dell’attuale sistema di coltivazione su larga scala del mais è anche la perdita di biodiversità, come ci ha raccontato Pablo Galeano in Uruguay, durante il nostro giro del mondo: “negli anni ‘90 in Uruguay c’erano 7 varietà di mais che si possono perdere rapidamente: ad oggi in Uruguay il 90% della produzione di mais è geneticamente modificato e sta rapidamente contaminando quello tradizionale.”

L’impatto ambientale su terra e acqua della nostra alimentazione, dipende infatti dalla quantità di prodotti di origine animali che consumiamo. L’uso di acqua è maggiore nelle diete vegetariane e onnivore rispetto a quelle vegane, per via del consumo di proteine ​​di origine animale. Quindi più proteine ​​animali vengono consumate in una dieta, maggiore sarà l’uso di acqua. Inoltre, l’allevamento utilizza il 70% dei terreni agricoli complessivi e un terzo dei seminativi. Per questo motivo, ridurre il consumo di prodotti di origine animale (carne, latte e uova) è un ottimo modo per diminuire il nostro impatto sull’ambiente e mitigare gli effetti del cambiamento climatico[2]. Purtroppo, al momento stiamo vivendo molto al di sopra delle capacità rigenerative del nostro pianeta e il nostro stile di vita, nei paesi del “Nord” del mondo, non è per nulla sostenibile. Ogni anno utilizziamo più risorse di quante il pianeta Terra ne produca, consumando letteralmente le risorse future del pianeta. A livello globale il 22 Agosto di quest’anno abbiamo iniziato ad usare le risorse future. Ci sono però forti differenze da paese a paese: per esempio il Qatar ha finito la sua “quota” di risorse naturali già l’11 febbraio, gli Stati Uniti il 14 marzo, l’Italia il 14 maggio, come la Francia e quasi come il Regno Unito. Al contrario, paesi come l’Indonesia possono essere considerati quasi sostenibili perché raggiungeranno l’overshoot day il 18 Dicembre. (Clicca qua per vedere l’overshoot day per tutti il paesi). In altri termini, se tutti gli abitanti mondiali consumassero come gli Stati Uniti, servirebbero 5 pianeti per supportare il loro stile di vita, se tutti consumassero come gli italiani servirebbero invece 2,7 pianeti.

Volete stimare qual è il vostro impatto ambientale sul pianeta Terra? Sbizzarritevi con questi strumenti del Carbon Footprint Network e del WWF. Per migliorare la nostra sostenibilità ambientale a livello individuale ci sono moltissimi modi, alcuni ben spiegati qui e in molti altri siti. Le soluzioni individuali, però, non sono sufficienti, per affrontare la crisi climatica sarà necessario un impegno profondo, serio e radicale a tutti i livelli: locale, nazionale, globale da parte di tutti: politici, imprese, cittadini, società civile e istituzioni internazionali.

Come al solito vi lasciamo con un breve video relativo al rapporto fra dieta e cambiamento climatico tratto dal raccomandatissimo sito Su-eatablelife.eu, a presto!

Sotto: un grafico che spiega quanti pianeti ci servirebbero se tutti consumassero quanto gli abitanti di questi paesi:

[1] http://www.worldofcorn.com/#corn-usage-by-segment

[2] https://www.mdpi.com/2071-1050/11/15/4110/htm

@LTERR@T!VE

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